giovedì 20 aprile 2017

Vincenzo Calò ci parla di Valerio Pedini

Valerio Pedini…

Valerio Pedini nasce il 16 giugno del 1995 ad Abbiategrasso in provincia di Milano.

Esattamente 18 anni dopo, Valerio, divenuto Gaio, senza onorificenze, decide di patrocinare il suo primo evento culturale, “Artiamo” , una mostra d’arte unita alla poesia e alla musica.

Nell’intermezzo ha iniziato a recitare, preferendo l’espressività del teatro di ricerca rispetto al metodismo popolare che comunque gli è utile per i suoi lavori sul movimento; a scrivere, pubblicando  in collaborazione col circolo narrativo AVAS Gaggiano, per le antologie “Tornate a casa se potete”, “Rigagnoli di consapevolezza”, “Ma tu da dove vieni?” (quest’ultima in collaborazione con Mambre).

Nell’ottobre del 2013 inizia il progetto “Non uno di meno Lampedusa”, insieme alla poetesse Agnese Coppola, Rossana Bacchella, Savina Speranza e alla narratrice Aurelia Mutti, con lo scopo di dare una voce poetica e artistica alla tragedia di Lampedusa (si sta preparando inoltre un’antologia).

A dicembre conosce Teresa Petrarca, in arte Teresa TP Plath, con cui inizia diversi progetti poetici: “La formica e la cicala”, “Essence”, “Pan in blues e in jazz”.

Ha contribuito a un progetto artistico diretto da Agnese Coppola, che tratta del doppio nell’arte, facendo studi teorici sulla poesia intesa come caos.

Inoltre ha lavorato per un libro di filosofia, che tratta della mediazione della paura di massa, e per una silloge poetica (“L’Impero dei non luoghi-luoghi comuni”).

Nel maggio del 2014 è uscita la sua prima raccolta poetica, con IrdaEdizioni: “Cavolo, non è haiku”, ed è stato inserito nell’antologia poetica Fondamenta Instabili (deComporre Edizioni) e successivamente sempre con deComporre Edizioni nelle antologie poetiche Forme Liquide, Scenari Ignoti, Glocalizzati, Ad limina mentis e, per la narrativa, Postmoderno Immaginario.

Suoi testi poetici e critici sono apparsi nel blog L’ombra delle parole curato da Giorgio Linguaglossa e nel blog di Francesco Filipponi, di cui è stato co-amministratore.

Suoi appunti critici sono comparsi inoltre su l’Osservatorio Letterario e su la rivista indipendente Antisociale (di cui è co-amministratore critico), sue poesie sono apparse sulla rivista nazionale Avanguardia e sulla rivista indipendente Rapsodia.

E’ comparso nell’antologia curata da Ambra SimeoneScrivere un punto interrogativo”.

Ha pubblicato la silloge Litanie, con prefazione di Ambra Simeone.

Allora Valerio, c’è qualcosa di strano nell’aria?
Considero la questione interessante solo da un punto di vista meramente relativo. Se non fossi uno studioso di sociologia, e un sintetizzatore storico, mi allarmerei e ti direi che non solo c’è qualcosa di strano nell’aria, ma che quel qualcosa di strano provoca un terribile afrore. Credo che i rimandi più doverosi siano da fare in questo a un crollo della società solidamente intesa, e a un crollo dell’idea del simbolo. Più o meno, come per la rappresentazione pop, il simbolo ripetuto ad nauseam rischia di dissolversi, per poi probabilmente costruirne un altro. Ricorda un po’ il passaggio tra Amon e Athon, insomma, è una transizione importante, probabilmente doverosa. Posso semplicemente ipotizzare, ma dire con fermezza quel che accadrà no. L’unica cosa certa è che, come al solito, ci sarà un bel pianto e tutto sarà come se non fosse mai successo.

Vai sempre dritto per le tue mete? 
Dritto, sbilenco, in diagonale, a balzi: qualche volta ci si ferma per pensare e poi ancora avanti. Sicuramente il termine “dritto” mal si addice a un artista e a uno studioso, anche a un uomo in generale, in quanto essere vulnerabile e volubile. Posso semplicemente dire però con fermezza, che, per creare un mio pensiero, mi sono sacrificato e ho perso spesso di credibilità, oltre ad aver perso molti cari. Un comune mortale mi direbbe che sono un coglione (lo penso anch’io), ma la mia maschera attorale mi dice che ho fatto bene eccome, perché almeno nel mio settore sto migliorando e sto raggiungendo piccoli obiettivi, che, fossilizzandomi in idee provvisorie, mai avrei agguantato. Quindi per i cliché io vado dritto verso i miei obiettivi, che sono in definitiva solo uno: la mia filosofia di vita.

E’ da stranieri incontrarti lungo un percorso?
Stranieri ai più, conosciuti ai meno. Apprezzo le minoranze. Poiché io sono una minoranza. Anche se in definitiva ti direi con una frase pirandelliana: “così siam tutti!”. Quindi autoironicamente più che da stranieri è da persone che hanno tanta pazienza, ah ah ah.

Si possono considerare certe avventure banali? Se sì allora quali sono?
A posteriori l’avventura più incredibile della vita può essere banalissima se in futuro se ne proietta un’altra. Ma sta di fatto che ogni avventura che possa in futuro risultare banale è un tassello che incide moltissimo quella grande struttura che è la nostra personalità, che per la gente era l’unica ma ch’è sempre molteplice: non esiste una soluzione unica, così come non esiste una personalità. Faccio un esempio: io da attore che sono ho sviluppato nel corso degli anni una passione incredibile per le maschere, e la personalità è nient’altro che una maschera in formato gigante che racchiude dentro sé, come la famosa bambola della fecondità, un insieme di maschere: da quella apatica, a quella comica, da quella dotta, a quella ignorante. Non esiste una personalità unica in noi, poiché è la somma delle avventure, ergo delle maschere che abbiamo indossato e che indosseremo. Ed è da maniacali ipocriti pensare che la faccia di Valerio non possa diventare un giorno la faccia dell’albero Eucalipto (tanto per sparare una troiata…!). Spesso parlo di cose che mi hanno deluso, ma mi hanno reso quello che sono, o meglio, quello che dico d’essere.

E’ possibile aggredire con le parole di un messaggio pubblico?
Beh, il messaggio pubblico è già di per sé un’aggressione. Ora dobbiamo capire solo che tipo di aggressione sia. C’è l’aggressione manipolante, ovvero quella rozzamente chiamata dai critici “democratica” (termine pomposo che potrebbe designare qualsiasi cosa), oppure l’aggressione che serve ad allontanare, a respingere. Io ho sempre preferito la seconda: ha una dimensione più profetica e più aggressiva. La prima è l’aggressione totale, ovvero la manipolazione delle menti. E’ un po’, senza offesa, quello che fanno i politici e i giornalisti. Gli attori, i poeti, gli scrittori tradizionalmente o respingono o manipolano: ci sono quelli più discreti che scrivono e basta, per loro. Alla fine tutto è utile, anche ciò che mi dà disgusto. Un esempio spiccio: se George W Bush non fosse stato presidente degli Stati Uniti, Carlos Fuentes non sarebbe diventato noto pigliandolo per il culo.

Denunciare vuol dire sconvolgere cosa di preciso?
Quel “preciso” mi suona come una minaccia. Ognuno denuncia quel cazzo che vuole. Non c’è una denuncia precisa, ci sono molteplici inclinazioni che si palesano denunce. Per me, però, che faccio arte di denuncia mi indirizzo in svariate direzioni, in una dimensione sociologica, antropologica, a volte anche religiosa con l’obiettivo, da sintetizzatore, di indicare un percorso. A volte leggendomi vedo una svariata connotazione profetica, a volte invece preferisco utilizzare la tragicommedia. La cosa certa però per me è che, con il crollo di quelle certezze che vi erano prima, il ritorno preponderante di una Tragedia possa esserci. Il novecento, con l’inclinazione nichilista del super uomo ha reso tutto Dramma, è caduta una punizione che non fosse prettamente umana, ma divina: la tragedia non ha ragione, ha solo azione. Nell’inclinazione futura credo e spero che, come cerco di definire io con i miei appunti critici e la mia opera teorica l’antiuomo, con il crollo dell’individuo si crei una punizione drammaturgica quasi divina. L’Africa avrà uno sviluppo incredibile, secondo me, per tutto questo. E l’avrà anche l’Occidente. Solo che credo che nella dimensione consumistica la punizione sarcasticamente sarà una punizione fantoccio.


Conosci meglio le gioie o i dolori della tua vita?
I dolori (ma spesso le gioie). Poiché dolore e gioia, la logica non lo dice, ma sono la stessa cosa, o meglio, sono marito e moglie.


Per quale punto di vista la quotidianità non si lascia raccontare?
Confesso che, a mio avviso, questa è la più bella domanda che mi si potesse fare! Il quotidiano si può raccontare, tanti l’hanno fatto e tanti lo fanno: se si fa, si può (l’ho fatto anch’io in Litanie, a esempio). Ma, come per ogni cosa, è il come, è il pensiero che sta dietro. Ripeto da tempo che sono contrario alla poesia diaristica del quotidiano, poiché è spiccia, è priva di una costruzione, se mi è concesso dirlo; e io odio le cose spicce, ma poi un giorno mi trovai dinanzi ai libri di Ambra Simeone e dissi “cazzo, questo sì che mi piace”. Ma perché? Perché c’era una struttura che sfociava nella destrutturazione del testo e nella sua prosa rivedevo quello che chiamo “sospensione”. Eppure ce ne son pochi, poiché pochi per me pensano quando fanno qualcosa. Ma non è vero che non si può. Le maschere pirandelliane erano quotidiane, o meglio, erano la distruzione di quel quotidiano. L’Ulisse di Joyce è la matrice del quotidiano. Dico insomma allora che si deve parlare del quotidiano… di contro il rischio è di essere alienanti. E non scherziamo, la quotidianità mica può dirti “Uè ciccio, oggi non mi racconti”. Sei tu che decidi. L’ostacolo sarai sempre e solo tu.

La poesia logora romanticamente le decisioni definitive dello scrittore o del lettore?
Di entrambi.

La “responsabilità dei terzi” come la s’identifica culturalmente?
I terzi culturalmente possono annebbiare un’opera o innalzarla: alla fine sono i terzi a fare l’opera, non gli autori, poiché sono i terzi a nominare l’autore.

Considerazioni sulla poetica di Valerio Pedini

La letteratura secondo questo giovane poeta si sta riducendo in una sorta di lamentela, pubblicabile da qualche perdigiorno incapace anche di stare in pace con l’apparato riproduttivo, a tal punto d’amplificarne la volgarizzazione.

Le parti intime mettono in repentaglio l’attività mentale fin dall’inizio di un giorno nuovo, scoraggiando un intero pianeta di esseri viventi sopraffatti da dichiarazioni di sole parole, dal riavvolgimento della memoria per cronache dettagliate, aventi come protagonisti spesso e volentieri degl’imbecilli che sfamano il tempo passato.

L’indice di mortalità è ad appannaggio dei perdenti, è in programma, e non v’è sollecitazione per chi vuol sopravvivere, trafitto da testimonianze che si alternano coi pettegolezzi circa una mancanza di coperture per l’eternità.

Pedini non ha intenzione di rimediare la presunzione d’insegnare come esporre un concetto, semmai invita a riflettere sugli strumenti per comporre, che si stanno allontanando dalla loro semplicità.

Talmente presi dal pensiero in odor di bruciato, di diffusione, non ci accorgiamo che dipendiamo eccessivamente dal mondo virtuale, e guai se si dovesse interrompere la comunicazione, ch’è tutto tranne che diretta, umana, comportando condanne ristrette agli sbalzatori della tecnologia.

L’orrore consiste nel decantare le proprie gesta, e non resta che promettere di tempestarlo di prestazioni sessuali, trascinanti.

Esprimersi da rapaci intellettuali oggi è come defecare in maniera anomala dopo aver ingerito l’indispensabile per crescere moralmente, passivi a un Dio univoco, dunque costretti a soddisfare personaggi senza il benché minimo riserbo, che volgono alle sconcezze più assurde, che svaniscono nell’irrisorietà dell’egocentrismo; superiori a un qualsiasi, sincero atto di fede, tanto da prendersi sul serio.

Valerio decanta con un’ironia di forbito linguaggio il disprezzo per autori emergenti ma per niente intraprendenti, predisposti magari a dettare il buon esempio, desiderando di abbattere i complessi d’inferiorità, ma che non vogliono conoscere l’umiltà.

Il poeta è in grado di fingere d’esserne il seguace, rimandandogli piuttosto alla loro leggera andatura, arrabbiato per come costoro non sappiano sacrificarsi, coltivando davvero delle esperienze di vita, ma nonostante ciò portatori di successo nel bel mezzo delle banalità, e per giunta con la puzza dell’ignoranza sotto il naso.

Ma, se si rasserena, Valerio Pedini li annienta in un sol boccone, rievocando l’educazione alimentare, esasperante, tipica degli anglosassoni, culturalmente ricercatissimi (ma in fondo è solo apparenza!).

La maledizione è alla portata di una considerazione di sé che s’ingigantisce non riuscendo a scaricare tensioni, per un torto passionale che deve uscire fuori da quel che si è in continuo movimento.

Le domande esistenziali si liquidano, e il poeta invita confidenzialmente alla dannazione del Prossimo, centellinando una discriminazione istintiva, mortale, con l’incontinenza, dovuta dall’aver vissuto la fisicità di un individuo, a segnare i percorsi della chimica.

La melodiosità della disperazione umana si rifinisce al margine della riflessione sull’attrattiva di carattere sessuale, che può influenzare un singolo e poi un’intera collettività drammaticamente.

Col dorso sconvolto di un uomo che non può fare a meno di diventare grande, si arriva esanimi al culmine di una dimensione terrena che non si tira a lucido, scoprendo così una condizione ambientale nefasta, da cui fuggire aspirando al benessere sociale oramai stravolto.

E si ride per non piangere, ma ci s’incattivisce a forza di reagire, seccando in pratica, e soprattutto l’intimo, a scapito di un sistema nervoso che irrigidisce per sciogliere un’intesa meravigliosa di tanto in tanto, da custodire tutelandosi in maniera indefinita, selvaggia.

Il bianco e il nero si confondono, non cercando più d’irrobustire una lesionata collocazione si realizza la tentazione di farla finita con piacere, di nascosto, tra le abilità di chi t’affianca.

“M’infarino nel petrolio
nelle ossa legnose di una terra tumefatta
e con i tentacoli della morte
scavo trincee nel tuo cervello, per morirci dentro… entusiasta”

Le invocazioni naturali rimbombano dentro un Valerio Pedini da stimare, che si complessa in prima persona, con un talento creativo ammaliante, da incoraggiare nella piena, allegorica maturità, nel perenne disagio che l’attualità arreca, da cogliere davvero, con un orgoglio idolatrante, come a concepire la sapienza temendo il peggio, la luce nel dissolvimento del passato, sensibile all’esaurirsi delle vanità.

Per una fenomenologia intaccata dall’erotismo, per una mostruosità di femminea padronanza che deve divorare l’intelletto del poeta affinché l’ego scuota il creato.

Convinti di evaporare prima o poi e di non misurare più alcuna forma d’assenteismo, non diamo importanza al nostro respiro, i polmoni si deteriorano, e traspaiono significati a noi eternamente cari, pendenti sul disordine maligno che ferma una qualsivoglia rinascita dell’essere non solo poeti, bruscamente spettacolarizzato, urlandolo senza riuscire a fare clamore, con l’immaginario da rimettere in sesto per una profondità oggettiva da intuire necessariamente.

“…sangue raffermo
nello specchio dell’io…”

Il poeta mi si offre smaniosamente, raccontando di pessime, storiche vicende, quelle che accadono sul serio, a sovrani dal potere esagerato, antico… tra questi per esempio v’è uno che rimane offeso mentre si riposa sotto l’eccezionalità del Sole!

Da ciò, si rileva il debellamento dell’essere e la triste liberazione di possedimenti che alla fin fine non è mai risultata insolita.

Aggredita la persona, si ricorre a ulteriore violenza, con squartamenti di vittime ben presto distribuite come prelibatezze, con una lussuria decadente che non permette di dare adito ad alcun punto di vista.

“…e la pappa reale fu servita
sul piatto d’oro di un universo scadente”

Il consolidamento del “tempo che fu” nei resti dell’ego sembra doveroso, concede il reflusso dell’inutilità, lo sterminio di deprecabili generi di vita, sancendo delle predominanze in riproduzione indegna, come a volgere sicuramente al sereno.

Per ragionare apprendendo che il peggio deve ancora venire, per erigere una materialità ineguagliabile, con testi scritti piacevolmente, ma che offuscano una naturale soluzione energetica, e fulminano una seduzione di donna sopraffatta dall’uomo, che esce fuori dal moto universale delle cose.

                                                                                                                             Vincenzo Calò

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